In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, Coffee Of Law intende approfondire alcuni dei reati afferenti alla violenza di genere. Tra questi, oggi parliamo di violenza sessuale: quando c’è violenza e le tutele per le vittime.
La violenza sessuale è una delle tante forme di abuso che rientrano nel più grande fenomeno della violenza di genere.
La fattispecie della violenza sessuale è disciplinata dall’articolo 609 bis c.p. il quale dispone che:
«chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi».
ELEMENTO SOGGETTIVO E OGGETTIVO DEL REATO
L’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è costituito dal dolo generico che si sostanzia nella coscienza e nella volontà di compiere un atto lesivo a terzi. L’elemento oggettivo si sostanza, invece, nella commissione dell’atto sessuale in sé.
L’elemento scriminante la questione, che consente di attribuire alla condotta rilevanza penale, consiste nel consenso, o meglio nella mancanza di consenso della parte offesa all’atto sessuale. Il consenso è discrimine del comportamento affinché questo sia tacciato di violenza e quindi costituisce non una causa di giustificazione dell’atto violento ma un limite alla connotazione stessa dell’atto quale violento.
La giurisprudenza stessa riconosce un ampio margine al concetto di violenza e di minaccia e in taluni casi riconosce nel dissenso, o meglio nel mancato consenso, il requisito esplicito. Commette reato colui che non riceve consenso dalla vittima a compiere l’atto sessuale.
VIOLENZA SESSUALE E CONSENSO DELLA VITTIMA
Sebbene questo rappresenti il principio in via generale, la giurisprudenza ha avuto orientamenti diversi concernenti la definizione del concetto di consenso.
Si prenda in esame la famosa ‘sentenza dei jeans’ per la quale il consenso alla congiunzione carnale era esplicitato dalla mancanza di resistenza della vittima desunta dalla collaborazione nello sfilare l’indumento (Cass., n. 1636 del 6 novembre 1998). Il consenso era stato desunto dai Giudici di legittimità da comportamenti che la parte offesa avrebbe tenuto nei confronti della parte attrice durante violenza, cioè nello sfilare il jeans, prescindendo dall’analisi di fattori esterni quali paura, timore, irrequietezza e paura che la vittima avrebbe potuto provare per la propria incolumità.
La Corte di Cassazione si è successivamente espressa a riguardo (Cass. n. 22049 del 19 maggio 2006) affermando che per la configurabilità del reato di violenza sessuale non è rilevante il comportamento remissivo della parte offesa o l’assenza sul corpo della stessa di segni di violenza.
Quindi, la collaborazione della vittima nello sfilare un indumento o nella mancanza di opposizione fisica alla violenza non può essere valutata come consenso esplicito all’unione sessuale, in quanto può essere conseguenza di paura e ansia provata dalla vittima. Questo non comporta un peso unilaterale sul comportamento dell’imputato ma cerca di rendere più elastico il dettato normativo considerando offesa la parte non consenziente.
Vi sono infatti situazioni in cui la parte offesa, nonostante sia dissenziente, non oppone resistenza per motivi di soggezione psicologica. In quest’ultimo caso si suole parlare di “costrizione ambientale agli atti sessuali”. La Suprema Corte ha, inoltre, esplicitato un altro concetto, quello di “abuso di potere”, riguardante qualsiasi atto sessuale compiuto da un’autorità pubblica o privata nei confronti di propri sottoposti.
Il consenso deve essere circoscritto ad alcune caratteristiche:
- anzitutto deve essere continuativo ossia deve perdurare nel corso di tutto l’atto sessuale; non può essere presunto;
- sebbene le parti in causa siano congiunte in matrimonio o in altri rapporti sentimentali, si ritiene violenza sessuale anche il costringimento di un partner al rapporto sessuale contro la sua volontà;
- il tacito consenso è altresì escluso nei casi in cui la parte offesa indossi vestiti succinti[1] o che sia in stato momentaneo o permanente di incapacità fisica o psichica.
Il consenso agli atti sessuali, dunque, non può essere inteso tacitamente, dall’esistenza di vincoli di coniugio, dallo stato momentaneo o permanente di incapacità fisica o psichica, dalla vestizione con abiti succinti.
VIOLENZA SESSUALE: COME DIFENDERSI
Il reato di violenza sessuale di cui all’articolo 609bis è procedibile a querela della persona offesa. Ciò significa che, per poter procedere, l’autorità giudiziaria necessita di conoscere i fatti di reato dalla vittima, tramite apposita querela.
La persona offesa può rivolgersi alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero per esporre i fatti di reato in sua conoscenza, di cui è stata vittima.
La querela è un atto a forma libera: questo vuol dire che la vittima dovrà limitarsi a esporre i fatti così come sono in sua conoscenza, senza la necessità di forme sacramentali né di dare una qualificazione giuridica dei fatti esposti. La querela può essere presentata nel termine di dodici mesi decorrenti dal giorno in cui è avvenuta la violenza ed è irrevocabile.
Ci sono dei casi, tuttavia, in cui il reato di cui all’articolo 609bis è procedibile d’ufficio, senza la necessità di querela, quando la persona offesa al momento del fatto non ha compiuto diciott’anni; se il fatto è commesso dall’ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza; se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni; se il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
[1] Cass. n. 34870 del 9 settembre 2009.
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